E’ davvero fallita la festa di Piana 2019? Oppure è stata un nuovo punto di partenza? Un contributo per pensare in positivo.
Premessa
Anche quest’anno la festa di Maria SS. Addolorata di Piana è archiviata.
A chi mette l’accento sulle polemiche di quest’anno, la risposta è questa: non vi è stata mai una festa a Piana che non sia stata segnata, in un modo o nell’altro, da difficoltà, tensioni, scontri e rivalità. Negli anni sono stati attaccati i membri della commissione, ora uno ora l’altro, sono cambiati, ci sono state scissioni, accuse e contro-accuse. Le famiglie, molte delle quali semplici attori della festa, altre, invece protagoniste con maggiore peso e con le inevitabili alleanze politiche alle spalle, si sono incontrate e scontrate, più spesso che occasionalmente, per i vari aspetti che riguardavano la festa, perfino per il gioco dei pignateddi.
Ma la festa è stata sempre fatta.
Erano anni d’oro. I contributi pubblici erano sovrabbondanti. C’era il contributo di tutti, delle sopradette famiglie, con le loro offerte, l’orgoglio di esserci e la collaborazione. La festa è stata fatta perché nella commissione hanno operato, per quarant’anni, persone che hanno affrontato ogni difficoltà e, per orgoglio e per dignità, non hanno mai lasciato il loro posto, incassando colpi e andando avanti.
In un modo o nell’altro la festa di Piana era la festa di tutti.
Parlare, quindi, della festa di quest’anno come l’anno delle polemiche e del fallimento è falso e strumentale.
La verità è che, celebrata in un solo giorno, la festa ha visto la partecipazione di un popolo numeroso, inaspettatamente più numeroso degli ultimi due anni. La Chiesa strapiena, anche alla Messa delle 11, quella che, per motivi di caldo, è celebrata solo con un residuo più coraggioso di fedeli. La partecipazione alla processione è stata davvero numerosa.
Con buona pace di tutti, c’è un popolo a Piana che ha festeggiato la sua Madonna in pace, con devozione, con una festa organizzata, quest’anno, in modo più sobrio, in un solo giorno e soprattutto con la voglia di tenersi lontana da polemiche costruite ad arte e logoranti, di cui gente è stanca e nauseata.
Sì, perché anche questa è verità: c’è nella gente una voglia di normalità che rende nauseabonde le polemiche, tranne a chi di polemiche vive e prospera.
E poi ci sono “gli ultras iper-arrabbiati”. Pace all’anima loro.
Voglio fare una riflessione sulla natura della festa, in generale, per mettere in evidenza qual è stato l’obiettivo della Parrocchia nell’organizzare le feste religiose di quest’anno.
Primo punto
Dobbiamo tenere conto di un dato. La festa popolare in Sicilia ha una genesi e una evoluzione diversa dalla festa nell’Italia settentrionale, che affonda le sue radici nella storia di una autonomia politica dei vari comuni, fieri e dirompenti di cultura. Quasi sempre anche le manifestazioni più laiche avevano legami con la fede (basta pensare al Palio di Siena) ma, in quel contesto storico e culturale, si sono potute sviluppare tradizioni popolari, appunto, laiche, accanto alle feste religiose o anche del tutto autonome.
Solo in quel contesto si può parlare di guelfi e ghibellini. Di forze contrapposte sul campo che rappresentavano i due poteri: Stato e Chiesa. In Sicilia questi accostamenti non hanno alcun significato. Anche perché, in Sicilia, che sviluppa un’altra linea storica, potere politico e potere religioso spesso – e purtroppo – si fondevano al punto da non distinguersi.
In una terra, quella siciliana, tremendamente bella e dannata dalla sua storia, segnata da dominazioni secolari, non si sviluppò mai una identità autonoma di società. Il feudalesimo in Sicilia termina con la fine della Seconda guerra mondiale. Con qualche strascico si è prolungato, mimetizzato in altre forme di controllo sociale, fino ad oggi.
In Sicilia, pertanto, la festa popolare presenta delle caratteristiche proprie (ne citiamo qualcuna, a modo di esempio):
a) Nasce da una religiosità che incarna tutto il dolore di in popolo sottomesso, privo di identità e dove la speranza e il futuro sono concetti incomprensibili.
b) Nasce come grido di aiuto al “potente” (il “santo” patrono, il “protettore”), attorno al quale si raccoglie il popolo, la sua disperazione, la sua incredibile capacità di resistenza alla sofferenza e la sua insopprimibile voglia di vivere. Il santo, che in Sicilia, in moltissimi casi, è la Madonna, la cui devozione nell’isola è senza confronti, costituisce una luce di speranza. Egli, davanti al “potente” temporale, si configura come il “potente” che protegge il popolo, cammina in mezzo ad esso (la processione e le risse per portare la vara), è colui che porta Dio dalla parte del popolo.
c) Avere un Santo Patrono è causa della festa, è motivo di gioia ed è liberante, perché scioglie, per qualche giorno, il senso di oppressione dalle catene sociali.
d) Questa gioia si trasforma in gioco, si sviluppa in tradizioni ludiche o attorno al santo o che coinvolgono il santo stesso. Santi che fanno la danza nella piazza principale, santi che fanno la corsa, santi che fanno la rincorsa per abbattere muri costruiti appositamente. Santi che ballano tra figure di giganti, ultimi residui di un paganesimo estinto, fusi con le tradizioni popolari di matrice cristiana. Basta pensare ai legami intercorrenti fra il culto di S. Calogero di Agrigento e quello pagano tributato in loco ad Ercole in età ciceroniana. Nascono le sagre e i giochi che oggi ancora conosciamo.
Madonna della Luce e i Gesanti a Mistretta.
e) Il ruolo delle famiglie e la festa, in Sicilia. Nella Sicilia antica la famiglia è patriarcale. E’ l’unica fonte di identità dell’individuo, in una società dalla non-identità come popolo. “Ri cu è figghiu?”. La generazione dei cinquantenni può ricordare ancora questa domanda, al passaggio di un ragazzo, davanti agli anziani seduti al bar. Le famiglie si configurano, all’interno dei vari gruppi umani (contrada, borgo), assumendo i tratti del clan (il termine qui è usato in senso sociologico) è diventano, con i cognomi storici, attori fondamentali della festa per generazioni.
Quello che va sottolineato con forza è che, nel Meridione, non esiste dualismo tra festa religiosa e festa ludica. Non sono due tradizioni distinte. Sono fuse in un’unica entità. Ci sono, però, solo alcune illustre eccezioni in tutta l’isola. La lettura che vuole una certa contrapposizione viene da una linea interpretativa di matrice marxista.
Secondo punto
A Piana la festa conosce uno sviluppo che, negli ultimi decenni, si è evoluto. La disponibilità di cospicui finanziamenti, l’orgoglio delle famiglie e la forte identità di “contrada” hanno generato la più grande festa del comprensorio.
Tutto questo è finito.
I patriarchi delle varie famiglie non ci sono più. Erano loro il pilastro della festa. Ciò che rimane è un gruppo sociale con un forte attaccamento alle proprie radici di contrada, che mal sopporta l’inclusione urbanistica nell’ormai unico centro abitato di Brolo, ma disarticolato e smembrato, senza la coesione sociale che costituiva il collante che permetteva alla festa di Piana di essere ciò che era.
Parlare di declino della festa per colpa delle commissioni è falso. Sono state le commissioni, con i vari membri che si sono succeduti, a fare la festa di Piana negli ultimi 5 anni. Oltre alla commissione storica, che si è estinta proprio qualche anno fa, un plauso va alla Pro Loco che, con dignità e sacrificio, ha gestito la parte non religiosa della festa l’anno scorso (2018) e il Gruppo dei Volontari della Parrocchia, di cui la maggior parte di Piana, che l’hanno organizzata quest’anno.
Ora siamo a un bivio. E bisogna che ognuno che crede a questa festa si interroghi sul futuro. E’ al futuro che dobbiamo guardare. Il passato ci è di lezione e memoria, ma la nostalgia non ha mai costruito il futuro. La festa di Piana è entrata in quella fase di cambiamento storico che ha messo in discussione tutto del mondo antico e delle tradizioni che ci sono giunte. Se le vogliamo fa vivere nel futuro dovremo compiere un vigoroso atto di riflessione e ridefinire posizioni e obiettivi.
Questo cambiamento si innesta nelle grandi trasformazioni sociali, culturali, economiche che hanno cambiato il volto della nostra nazione per sempre. Occorreva una lettura profonda di queste trasformazioni per capire cosa stavano cambiando anche nelle feste. Vi sono due fallimenti da registrare. Quello delle parrocchie, rimaste impotenti e senza vigore missionario davanti all’emorragia di un popolo giovane che si è spostato in massa altrove, in cerca di lavoro e davanti alla crisi globale che ha colpito le famiglie. Erano loro che dovevano ricevere e tramandare, a loro volta, le tradizioni del passato. Un fallimento ancora più grande è quello della politica, che non è stata neanche capace di leggere e interpretare la fenomenologia della trasformazione in atto e ha, negli ultimi anni, ha guardato le feste e alle tradizioni religiose come a strumenti potenti di controllo sociale.
L’esempio di Salvini che gira l’Italia agitando, con sempre maggiore nervosismo, la sua corona del rosario, baciandola e mostrandola come un trofeo, un talismano, davanti ai gruppi che lo stanno contestando, è la prova più eloquente di quanto appena detto.
Terzo punto
Il risultato di questi fallimenti è la declassificazione della festa da momento di fede, di aggregazione e di socializzazione a mero evento turistico, uno dei tanti eventi in programma per animare l’estate e attirare turisti (la festa è un evento che deve attirare gente allo spettacolo serale; il successo della festa viene misurato in base al prestigio del cantante e alla riuscita della sagra. “Chi si mancia?” “A cu portanu?”). Dall’altra parte vi è la riduzione della festa ad evento folkloristico, da promuovere sempre allo scopo di “far venire gente da fuori”.
Questo atteggiamento del popolo stesso verso la festa è indice di una tragica perdita di valori, anche verso gli aspetti più legittimamente ludici della festa tradizionale (valore non è solo la fede ma anche l’aggregazione come popolo). I giochi di un tempo aggregavano. Il cantante porta gente ma non aggrega, non favorisce la socializzazione. Non costruisce comunità.
Ci troviamo, adesso, davanti alla necessità di rifondare la festa (la concezione di festa), ripensarla, ricostruirla attorno a valori antichi e, insieme, nuovi parametri. Questi parametri vanno ancora individuati, non possono essere – e non saranno – quelli turistici o commerciali.
E’ una difficile trovare la soluzione. E’ una ricerca che impegna la Chiesa in primis, che non ha la soluzione immediata a difficoltà che affondano le radici in una crisi che è anzitutto antropologica, non economica.
E’ in atto una profonda crisi antropologica globale. La chiave di lettura per comprendere quanto sta succedendo è antropologica, non sociologica. E, mancando la giusta lettura, è proprio la mancata elaborazione di un nuovo umanesimo, anche cristiano, che ha fatto sì che, quasi in ogni paese, le feste si vivono ormai come commistione tra devozione e superstizione, folklore e attrazione turistica. La componente devozionale non è scomparsa ma si è ridotta molto a devozionismo.
La parrocchia a Brolo è impegnata in un vigoroso lavoro di ricomprensione del senso e della forma in cui le feste devono celebrarsi.
a) Per quelle tradizionali, come Piana, è ovvio che si vuole recuperare la dimensione ludica e “non direttamente religiosa” e impedire che scompaia del tutto. Le tradizioni religiose in senso stretto e anche ludiche vanno custodite e tutelate, non eliminate. Vanno riqualificate, purificate e riproposte. Vogliamo una festa con un triduo di preghiera e con eventi anche alla vigilia. Vogliamo che le famiglie si sentano protagoniste, ma è un lavoro tutto da fare.
b) Nel frattempo sono stati individuati alcuni dei nuovi parametri da attenzionare. C’è un crescente bisogno di una spiritualità autentica che sta emergendo dal popolo, un bisogno di riagganciare il contatto con Dio che le antiche processioni, gli antichi riti, che costituiscono sempre un patrimonio sacro, non riescono più a garantire. C’è anche bisogno di una fede silenziosa, di meno baccano, di maggiori spazi di contemplazione. Il popolo chiede di essere aiutato a pregare. Le famiglie chiedono alla Chiesa di essere aiutate a trovare Dio nei drammi della loro vita quotidiana. E la Chiesa deve esserci per loro. La Chiesa a Brolo non ha nessuna intenzione di rimanere ostaggio di chi critica tutto ma non crede in niente.
Forse la prova più sorprendente tra incontro tra Chiesa e popolo, in queste nuove domande emergenti, lo abbiamo visto l’anno scorso, la notte della processione, al Castello, della Statua Pellegrina della Madonna di Fatima. Quasi duemila pellegrini, venuti da ogni parte, in quella notte, si sono inginocchiati sui ciottoli delle strade interne del castello, perfino anziani, durante la preghiera di consacrazione della città di Brolo alla Madonna.
Da quell’evento, scritto ormai nella memoria di Brolo, nasce la festa della Madonna di Fatima, che sarà celebrata la prima domenica di ottobre. Non ci saranno bancarelle né baccano. Sarà una festa all’insegna della ricerca spirituale.
Sono nate così, altre nuove tradizioni, come la benedizione delle famiglie, che, partecipate ora da masse ora da piccoli gruppi, ha saputo intercettare questa domanda di interiorità. Domanda che gli agenti esterni, come la politica, non può intercettare semplicemente perché non qualificata.
Per questo la gestione delle feste religiose è competenza esclusiva della Parrocchia. Nulla vieta accordi di gestione. Nulla vieta che un’amministrazione possa, secondo un protocollo d’intesa, gestire la parte esterna della festa. Ma la tutela dei valori attorno a cui nasce si sviluppa la festa è responsabilità della Chiesa, non della politica.
A Brolo la presenza politica sulla gestione delle feste è stata recentemente forte, fino a diventare pressione intollerabile e soffocante. In questo frangente storico, sono all’opera soggetti che agiscono per creare, alimentare e manipolare una violenta contrapposizione sociale di fazioni al solo scopo di aumentare il controllo sociale. E’ in atto, da parte di un gruppo minuscolo, poco seguito e apprezzato, il tentativo pianificato di dipingere i tratti di una Chiesa, a Brolo, corrotta e corruttrice, compromessa e guidata da un parroco faccendiere, preso solo dai suoi interessi personali, moralmente corrotto e spiritualmente inconsistente. Da alcuni mesi, direi a partire da maggio in poi, questo attacco si estende a tutti coloro che vengono riconosciuti come operatori pastorali impegnati in prima linea o persone “vicine al parroco”.
C’è una parola di smentita a questo teorema, non pronunciata ma molto eloquente, che viene dalla parte sana del paese, che è la maggioranza.
L’obiettivo che la parrocchia si è posta, per quest’anno, nell’organizzazione delle feste, è duplice:
a) La de-politicizzazione delle feste
b) La de-privatizzazione delle feste.
La Parrocchia, come Comunità complessiva, è l’unico baluardo e garanzia di libertà e indipendenza dello spazio religioso rispetto a ogni controllo esterno. Quest’anno, in mezzo a mille ostacoli, l’obiettivo è stato raggiunto. Ma non è ancora consolidato. E la rabbia di una certa fazione politica è salita alle stelle, sfogandosi fino al delirio, e si è sfogata servendosi di amici, ma l’impressione che si ha è di bombe incendiarie dalla miccia corta. Non è esploso nulla.
L’attuale amministrazione, nei riguardi dell’attuale parroco sottoscritto e della Parrocchia, ha compiuto i primi passi verso una corretta interrelazione istituzionale.
Quando saranno ripristinati definitivamente i confini, se saranno del tutto ripristinati, credo che la collaborazione fra Ente Locale e Parrocchia porterà solo bene al paese. Ed è il bene del paese e della sua gente l’obiettivo comune di tutte le istituzioni sul territorio (Comune, Scuola, Chiesa).
Don Enzo Caruso